Facciamo due passatelle per oggi a pranzo?




Ho fatto colazione alle 8. Solito ordine e disordine fra voglia di questo e di quello che deve però essere corrisposta con quanto trovo in cucina e nel frigo. Alle 9:30 incontro mia mamma che si sta già preoccupando per il pranzo. È meglio pensarci adesso, per assaporare l’attesa nella sicurezza della buona riuscita del pranzo e nella serenità del dopo pranzo. Tutto viene stabilito in poco tempo, ma il rito della domanda è d’obbligo:
«Faccio due uova di passatelle per noi due? Che dici?»
Passatelle, forse. Molti le chiamano passatelli, ma a me piace chiamarle al femminile per la loro fragranza, aspetto ed imprevedibilità, tratti comuni al pianeta delle donne. Quando ero bambino mi acquattavo sulla seggiola vicino al tavolo della cucina, con le mani sotto il mento a sostegno della testa, ammirando così instancabilmente le mani esperte di mia nonna preparare le passatelle sul tagliere di legno. Gli odori intensi degli ingredienti che si mescolavano cordialmente fra loro sprizzavano e si irradiavano naturalmente dall’impasto, inebriando la cucina e marcando per sempre il registro del mio olfatto e della mia memoria. Negli anni successivi il rito della preparazione delle passatelle passò di mano da mia nonna a mio papà. Mia mamma ha imparato da lui e poi da se stessa.
Mio papà, rispetto a mia nonna, era meno accondiscendente con me.
«Adesso, Davide, non toccare niente! », così esordiva e mi esortava già al momento in cui ordinava gli ingredienti sulla tavola. Il suono di un uovo, aperto con due colpi secchi eseguiti sul bordo della terrina, rappresentava il gong, l’inizio. Sbatteva poi con una forchetta l’uovo nella terrina e poi aggiungeva gli altri ingredienti.
«Allora, le brave donne dicono di usare per un uovo tre cucchiai di Parmigiano grattugiato e tre di pan grattato. Poi non ti dicono che è meglio metterci anche un poco di farina, solo mezzo cucchiaio!», mi confessa oggi la mamma.
«Mamma, posso grattugiare un poco di noce moscata?».
Questa è la parte nobile del rito: l’aspersione della spezia esotica, la ricchezza sensuale degli odori sulla semplicità degli altri ingredienti. La noce moscata richiede rispetto, è nobile, sia per grattugiarla che per dosarla. È ingrediente esigente. È oleosa al tatto e quindi scivola facilmente fra i polpastrelli quando la si strofina sulla piccola grattugia a lei dedicata. Per apprezzarla si rischia il sangue. La quantità è meritoriamente e garbatamente personale: ne può essere sufficiente solo un poco, che per alcuni può sembrare una quantità avara tanto da ribellarsi alle costrizioni ed affidarsi alle sensazioni. La nobile noce moscata incontra il saggio Parmigiano ed assieme, senza riluttanza e senza ripensamenti, resuscitano afflati di banchetti rinascimentali fra gli affreschi dei Mesi. Il profumo della noce moscata mi ricorda i pranzi ferraresi in famiglia nelle domeniche invernali. Il cielo grigio, isolato dai tetti umidi della città dalla coltre nebbiosa, rappresentava l’ispirazione per mio papà a preparare cappelletti in brodo o passatelle. Il vapore del brodo ricco di profumi si confondeva con la bruma novembrina, fuori dalla finestra.
«Adesso bisogna mescolare tutto e poi lo si impasta con le mani, così!». Con la sua gestualità lenta, gentile e cadenzata mia mamma racconta tutti i passaggi che mia nonna eseguiva in silenzio e, successivamente, mio papà interpretava con velocità e concreta precisione. Le mani si allontanano e si avvicinano periodicamente ed armoniosamente fra loro tracciando semi-archi nei quali l’uovo e l’impasto vanno a fondersi sotto la pressione delle mani e delle spalle. Sembra davvero una tavolozza di colori di un pittore impressionista o la materia oleosa modellata sulla tela di un informale.
Mia mamma continua:
«Quando vedi che l’impasto prende consistenza e diventa malleabile, allora puoi iniziare a creare le passatelle. Se l’impasto è ancora troppo morbido, aggiungi un poco di Parmigiano o un poco di pan grattato».
Lo schiacciapatate per trafilare le passatelle ha sempre attirato le mie attenzioni ludiche. Da bambino mi ricordava un gioco metallico, un meccano gastronomico: è un antico trafilatore di memoria. Mia mamma crea piccole polpettine sopra un vassoio che inserisce poi nella trafilatrice. Pressandole con la forza delle braccia taglia le passatelle, quelle passate dai buchi, per una lunghezza di circa quattro centimetri. A lei però piace la casualità di come la pasta trafilata si rompe naturalmente e si distacca spontaneamente.
«È bene prima farle tutte e lasciarle per un poco su un vassoio. In questo modo le puoi versare nel brodo tutte assieme contemporaneamente!». Le passatelle sono gregari, nascono e vivono assieme.
Le chiedo:
«Ed il brodo, quando lo fai?».
«Beh, è sempre bene usare il brodo buono che avrai preparato in precedenza».
Insisto:
«Ma per quanto tempo le cuoci?».
Quando si versano delicatamente nel brodo buono bollente, questo smette per qualche tempo di bollire. Il brodo frenetico riduce la propria emozione incontrando le passatelle. È sufficiente quindi aspettare che il brodo riprenda a bollire perché le passatelle siano pronte. Gli odori sprigionati dalla cottura sono rappresentati da varie note speziate sostenute dal Parmigiano e dall’uovo. Il brodo esalta queste fragranze. Il giallo ocra dell’impasto scalpita nel brodo occhiuto, involuti sapori, offuscamento esalante.

In plenitudine cordis



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